Caso Lukaku, Thuram: “Il razzismo non è nel calcio, ma nella cultura delle persone”

È destinato a continuare a far parlare di sé il caso legato agli ululati diretti a Romelu Lukaku al momento del calcio di rigore che ha deciso la partita di domenica scorsa Cagliari-Inter. Il giocatore, come è noto, ha prima reagito in campo e poi ha scritto una lettera colma di importanti contenuti nella lotta al razzismo degli stadi.

Nelle scorse ore un comunicato della Curva Nord dell’Inter – destinato a sollevare ulteriori polemiche – ha reso nota una posizione “morbida” della tifoseria organizzata nerazzurra, che ha teso a sminuire l’accaduto rivendicando a propria volta la libertà di utilizzare gli stessi ululati contro gli avversari, per “distrarli”.

Una posizione “culturale”, ancor prima che sportiva, che è stata evidenziata ulteriormente da Lilian Thuram, in un’intervista concessa e pubblicata oggi dal Corriere dello Sport. L’ex calciatore, campione del Mondo con la Francia nel 1998 e oggi leader internazionale della lotta al razzismo nel calcio, ha spiegato con le parole che seguono quello che è un fenomeno prima interno alla cultura popolare e nazionale, e solo per questo emergente poi negli stadi.

Lilian Thuram è il simbolo del mondo del calcio che lotta contro il razzismo. Appese le scarpe al chiodo, ha creato una fondazione che educa contro il razzismo, ha scritto due libri (“Le mie stelle nere” e “Per l’uguaglianza” di Add Editore) e gira per le scuole per portare avanti la sua battaglia. Lo fa con la stessa decisione che aveva in campo contro gli avversari più forti e, dopo aver vinto la Coppa del Mondo, vuole vincere anche questo… trofeo contro i razzisti. Thuram ha anche evidenziato con forza che le iniziative sbandierate negli anni non portano mai a qualcosa di concreto.

“Cosa possono imparare i tifosi italiani se da tanti anni si parla e non si fa niente? Per imparare bisogna muoversi, prendere delle decisioni per risolvere il problema. Se non viene fatto niente, si dà il diritto di continuare a chi si comporta in un certo modo. Chi comanda evidentemente non considera gravi i “buu” e il razzismo. C’è tanta gente che parla, sottolinea la necessità di cambiare e poi non fa niente. E per me chi non fa niente, vuol dire che è d’accordo con quelli che fanno “buu”. Qualcuno si arrabbierà per le mie parole, ma la penso così. Se ti dà fastidio una cosa, fai di tutto per cambiarla. In Francia per esempio gli arbitri interrompono le partite in caso di atteggiamenti contro l’omosessualità sugli spalti: sospendere la gara e mandare le due formazioni negli spogliatoi vuol dire educare la gente. In Italia non mi ricordo di prese di posizione così forti.

Quando si parla del razzismo bisogna avere la consapevolezza che non è razzista il mondo del calcio, ma che c’è razzismo nella cultura italiana, francese, europea e più in generale nella cultura bianca. I bianchi hanno deciso che sono superiori ai neri e che con loro possono fare di tutto. È una cosa che va avanti da secoli purtroppo. E cambiare una cultura non è facile. C’è un’ipocrisia tremenda e che manca la volontà di risolvere il problema. Una cosa del genere è successa in Inghilterra a Pogba che sui social network è stato offeso. C’è stato un allenatore che ha fatto un’uscita ipocrita affermando che bisogna boicottare i social perché certi comportamenti non erano tollerabili, ma quello stesso tecnico in passato sosteneva che le gare non si dovevano fermare in caso di “buu”. Tutti dicono “Facciamo qualcosa”, ma nessuno fa davvero qualcosa. E i razzisti credono di avere ragione”.

I club devo sentirsi responsabili per quello che succede perché certi episodi si verificano dentro uno spazio chiuso ovvero uno stadio. E quando dico “responsabili”, non intendo “colpevoli”. Le società devono dire: “Noi siamo responsabili. Cosa possiamo fare?”. Se ammetti di essere responsabile è un buon inizio perché non succeda più. Se invece nessuno si sente responsabile…”.